Ultimi arrivi

The Odin Teatret was founded in 1964 in Norway and for 34 years has been based in Holstebro, Denmark, away from the capital and the centre for theatre. It also tours in other countries. What makes this theatre special in comparison to others, is that 'it comprehends theatre as a specific social and spatial reality, often expressed through the metaphor of a monastery, ghetto or exile'.The theatre laboratory has many other activities than the mere creation of theatre performances; it also conducts seminars, conferences and meetings with theatre people from around the world. It has published a series of books and magazines about theatre technique and theory and produced films and videos.This is a remarkable book for actors, dancers, writers, directors, choreographers and others involved in creative theatre production. It is also a valuable resource for anyone who is captivated by the art and craft of the theatre.
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'Odin Teatret: Theatre in a New Century combines history and analysis seamlessly in a timely study of Eugenio Barba and the Odin Teatret's current work. Ledger's research provides a wealth of unique insights into Barba's work. He engages devised theatre practice and theory as a means of better understanding his dramaturgical methods, for example. He also provides the first comprehensive discussion of Barba's large scale Theatrum Mundi productions in English through the dual lenses of Barba's production history and his intercultural research. He offers a rethinking of the Odin's Barter and Festuge activities as social rather than aesthetic activities; and he provides the first detailed descriptions and discussions of the Odin's Festuge activities in English.' - Ian Watson, Professor of Theatre and Chair, Department of Arts, Culture and Media, Rutgers University-Newark, USA'Considering the significance and longevity of Odin's work, Ledger's documentation of almost fifty years, charting its birth, middle age, and more intensely its senior citizenship in theatre history is timely, exhaustive, and accessible. Ledger suggests a thought-provoking application of the company's relevance in the twenty-first century through notions of community, re cycling, site-specificity and process-based performance, giving a comprehensive account of Odin's proliferating pedagogical work.' - Carran Waterfield, New Theatre Quarterly
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Dal 1973 al 1975 Eugenio Barba e l’Odin Teatret dalla Danimarca si trasferiscono, a più riprese e per lunghi periodi, in Sardegna e nel Salento, con l’intento di portare il teatro in “luoghi senza teatro”, a contatto con popolazioni che abitualmente non ne fruivano. Nel corso di queste permanenze, l’Odin definisce, come modalità di relazione con gli abitanti dei paesi salentini e sardi, in prevalenza contadini e pastori, il cosiddetto “baratto culturale” per cui al dono della loro arte i locali rispondevano con una canzone tradizionale, un ballo o una festa. Un’esperienza destinata a lasciare un segno profondo nei territori interessati, soprattutto nel Salento dove l’Odin aveva come referenti un gruppo di intellettuali, tra i quali Gino Santoro e Rina Durante, impegnati nella ricerca e riproposta della musica tradizionale.Il libro ricostruisce questa singolare e appassionante vicenda attingendo principalmente a fonti dell’epoca e privilegiando il punto di vista dei protagonisti, individuando anche nessi e relazioni con l’incendio che, da lì a poco, sarebbe divampato attorno al “rinascimento della pizzica”.Con prefazione di Eugenio Barba, le fotografie di Tony D’Urso e scritti di Antonio D’Ostuni e Antonello Zanda. Nel DVD allegato al volume, il documentario di Ludovica Ripa Di Meana, In cerca di teatro, girato alla fine della residenza salentina del 1974 (con una rappresentazione in presa diretta dell’incontro tra le due culture, una strepitosa performance di Uccio Aloisi e Uccio Bandello e le prime immagini in movimento della pizzica pizzica) e il film di finzione di Torgeir Wethal, Vestita di bianco, girato sempre nel corso dell’esperienza salentina dell’Odin. Iniziativa editoriale realizzata d'intesa con la Cineteca Sarda-Società Umanitaria di Cagliari e, per il dvd, grazie a Odin Teatret, RAI e Ludovica Ripa di Meana
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Teatro e sperimentazione sono un binomio inscindibile perché nessuna altra pratica artistica più di quella teatrale ha rivelato accanimento e costanza nel forzare i limiti dei codici alla continua ricerca di nuove forme di significazione. Gli studi qui raccolti partono appunto dall'ipotesi di lavoro che l'esplorazione sperimentale costituisca una delle principali dinamiche evolutive del teatro fin dalle sue origini. I temi affrontati spaziano dal teatro greco fino alla prassi teatrale contemporanea. Il volume, insieme a un altro specificamente dedicato al teatro musicale, raccoglie gli atti dei cinque convegni di studi svolti nell'ambito di una ricerca interuniversitaria sul tema: "Lo sperimentalismo nella storia del teatro occidentale"
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Gli spettatori che il 3 marzo 1585, ultima domenica di Carnevale, dopo un'attesa di molte ore, assistettero allo spettacolo inaugurale del Teatro Olimpico di Vicenza si trovarono di fronte a quello che è considerato uno dei monumenti più insigni del teatro del Rinascimento. La coppia monumento/documento è uno dei riferimenti metodologici più spesso invocati nell'importante libro di Stefano Mazzoni intitolato appunto all'Olimpico di Vicenza. Ci torneremo sopra. Lo spettacolo era l'"Edipo tiranno" di Sofocle nella traduzione di Orsatto Giustiniani, con il coordinamento scenico di Angelo Ingegneri, uno dei primi teorici della messa in scena.Ma il vero spettacolo, oltre la favola scenica rappresenta pur con un così alto investimento culturale, fu il teatro stesso e in particolare la scena. Impostata da Andrea Palladio e portata a compimento da Vincenzo Scamozzi dopo la morte del Palladio nel 1580, per conto dell'Accademia Olimpica, essa presentava la realizzazione piena delle idee di Vitruvio, l'architetto romano che nel suo trattato "De Architectura "aveva consegnato al Rinascimento l'utopia della "città antica" e, in essa, del "teatro antico". Dunque: una scena costruita e non dipinta, fornita di tre porte - la "ianua" regia al centro e gli "hospitalia" ai lati - per l'ingresso dei personaggi, e raccordata alla platea da due corpi aggettanti agli estremi, le "versurae procurrentes", vera croce degli interpreti di Vitruvio. In più, estranee al dettato vitruviano, tre scene prospettiche, sia pur di rilievo, nei vani delle tre porte. Un quadro di intensa suggestione, e di profonda complessità culturale, anche, per quell'accostamento tra illusionismo prospettico e tridimensionalismo architettonico da subito percepito - e poi storiograficamente riguardato - come una forzatura, se non una vera e propria insubordinazione esegetica.Un monumento insigne del teatro del Rinascimento, abbiamo detto. Se l'opposizione documento/monumento ha un senso concreto, l'ha in quanto distingue (non oppone) il certificare dal rammemorare. Il documento certifica, il monumento ricorda. La domanda allora è di cosa sia "memento" il Teatro Olimpico di Vicenza, visto che della sua "perpetua memoria" si fa esplicita menzione nel titolo. Al di là della vicenda interna all'Accademia, il Teatro Olimpico ricorda - io credo - la storia di una battaglia durata almeno un secolo, e vinta infine dalla cultura materiale del teatro, sull'astratta cultura dei libri da un lato, e sugli imperativi della prassi dall'altro. Dalla prima edizione del trattato di Vitruvio nel 1486 fino all'edizione definitiva di Daniele Barbaro con illustrazioni di Andrea Palladio, l'esegesi di Vitruvio fu il tentativo ostinato e continuo di non isolare la tradizione dall'innovazione, il passato dal presente: il valore culturale dall'uso. Non isolare, cioè far convivere, integrare, creare quello spazio di transizione che è per natura il luogo del teatro. Con quelle prospettive messe in scena, contro l'innovazione che avrebbe voluto al contrario mettere in prospettiva la scena, ma anche contro la tradizione che avrebbe voluto semplicemente escludere la prospettiva (antivitruviana) dalla scena vitruviana, l'Olimpico di Vicenza fu il monumento della cultura del teatro come "spazio di transizione".Qual è il contributo del libro di Mazzoni a questo monumento? È un contributo per molti aspetti definitivo, attento alle coordinate molteplici dei dati presi in esame, orgoglioso delle sue acquisizioni documentarie ma mai frettoloso o disinvolto nel rivendicarle: insomma, un contributo essenziale, che nulla concede al luogo comune e ai discorsi a volo alto, o all'enfasi. E però nulla o quasi concede neppure al pathos: forse dimenticando che l'enfasi non è la naturale espressione del pathos, ma ne è proprio lo snaturamento. Rileggendo e soprattutto contestualizzando nei dettagli il manoscritto sull'"Accademia Olimpica" dell'abate Bartolomeo Ziggiotti, aggregando attorno a questa fonte primaria una mole di documenti inediti e malnoti, Stefano Mazzoni sviluppa argomentazioni inoppugnabili, esemplare quella che assegna una volta per tutte integralmente allo Scamozzi la paternità delle tre prospettive: appoggia il monumento dell'Olimpico su fondamenta sicure. La scelta del testo da rappresentare e i modi della sua messa in scena vengono restituiti all'intreccio reale di gusti, opportunità e idiosincrasie che li determinò; vengono giustamente sottratti alla predestinazione culturale, che spesso è solo l'alibi d'una ricerca pigra.E la ricostruzione della giornata inaugurale è un esercizio di realtà virtuale segnato dalla partecipazione in prima persona, con lui, Stefano Mazzoni finalmente spettatore: più consapevole e impegnato sì, ma per il resto postumo spettatore emozionato tra emozionati spettatori coevi. È questo il pathos, un gesto che fa bene alla qualità della scrittura oltre che all'equilibrio dello scrittore.Il rischio altrimenti è che il documento, come un'imponente impalcatura della quale venga scordata la funzione di servizio, finisca con l'eclissare il monumento che voleva sostenere
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