Ultimi arrivi

In questo libro vengono prese in esame le questioni dell'identità e dell'alterità, così come esse sono state portate all'attenzione generale dai maestri contemporanei, cioè dai protagonisti delle due fasi della riforma teatrale nel XX secolo, e così come si pongono oggi nei settori più avanzati della scena. Tre, in particolare, sono le esperienze teorico-pratiche che fungono da riferimenti guida. La prima è quella di Artaud e del suo viaggio in Messico, esempio precoce ed estremo di osservazione partecipante. Artaud parte per il Messico in cerca di una cultura organica e del vero teatro. La partecipazione ai riti del peyotl presso i Tarahumara lascia sul visionario francese un segno indelebile, e il tentativo ininterrotto di renderne conto attraverso la scrittura costituisce uno degli sforzi grandiosi della sua ultima stagione creativa. La seconda esperienza teorico-pratica è quella dell'antropologia teatrale di Eugenio Barba e dell'ISTA, l'International School of Theatre Anthropology. Il terzo esempio è quello di Jerzy Grotowski, che in qualche modo funge da filo rosso, legando i diversi capitoli del volume. In effetti, un libro come il presente, consacrato alle questioni dell'altro e dell'alterità nella scena contemporanea, non poteva non trovare nel regista e teorico polacco la figura eponima.
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Il libro racconta la storia di una rivolta culturale e politica combattuta coi mezzi del teatro, che dal Brasile, in cui è nata, si è diffusa nell'arco di 50 anni in decine di Paesi in tutto il mondo. È la storia del Teatro dell'Oppresso (TdO), nome apparentemente infelice, da intendere come "Teatro per la liberazione dell'Oppresso", una metodologia nata sotto la dittatura brasiliana negli anni '60 e diffusasi nel resto d'Europa dagli anni '80 in poi, a seguito dell'esilio forzato del suo fondatore, il regista Augusto Boal. In un'epoca in cui l'arte teatrale investe sempre più spesso ambiti sociali ed educativi, vale la pena ricordare la singolare esperienza di Augusto Boal regista brasiliano esiliato in Francia negli anni '70 a causa della dittatura e recentemente scomparso - e della metodologia teatrale da lui elaborata: il Teatro dell'Oppresso (TdO). Un metodo teatrale che oggi si muove in una zona di confine: fra politica e terapia, fra teatro e animazione sociale.
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Il libro, divenuto ormai un classico, raccoglie una serie di scritti - così avverte il curatore - ma non è un libro su Tadeusz Kantor. Comunque sia, in 303 pagine, il volume racchiude la complessa figura di un artista che, come pochi, ha contribuito alla trasformazione della scena contemporanea.Pubblicato nella collana "I libri bianchi", Il teatro della morte prende il titolo dall'ultimo manifesto di Kantor, che coincide con la creazione dello spettacolo La classe morta. Due eventi che costituiscono un momento capitale nella sua opera - spiega Bablet - e in certo senso segnano un superamento del suo lavoro precedente. E' questo il motivo della scelta di tale titolo.Dopo il saggio introduttivo del curatore, questa raccolta di scritti procede nell'opera kantoriana a partire dalle prime esperienze all'inizio degli anni 40, "Il teatro indipendente (1942-1944)", per passare, attraverso "Il Teatro Cricot 2" e "Alle frontiere della pittura e del teatro", al capitolo dedicato allo "Svolgimento dell'azione". Si arriva quindi ai manichini con "Il teatro della morte" e proseguendo verso la fine si entra nel "Baraccone" per chiudere con alcune note su "L'artista", prima degli "Ultimi spettacoli", Wielopole-Wielopole, Crepino gli artisti e Aujourd'hui c'est mon anniversaire (Kantor è morto l'8 dicembre del '90, dopo la prova generale di quest'ultimo spettacolo).
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È il caso di chiarire subito in che senso il Novecento lo possiamo considerare un'età d'oro del teatro. È evidente che può esserlo innanzitutto per il fatto di aver costituito un culmine nella vicenda plurisecolare della scena occidentale. Basterebbe pensare all'avvento della Regia, modalità produttivo-creativa del tutto inedita ed essenzialmente novecentesca comunque la si pensi sui suoi precorrimenti nel XIX secolo -, alla tradizione dei registi-pedogoghi, a figure come Craig, Appia, Stanislavskij, Mejerchol'd, Copeau, Artaud, Brecht, giù giù fino a Grotowski, Kantor, Brook, Mnouchkine, Barba - per non citare che alcuni dei più celebri. Tuttavia la stessa immagine può essere utilizzata per mettere in rilievo un altro carattere del Novecento teatrale, che è almeno altrettanto importante di quello riguardante l'eccellenza e l'originalità artistiche appena ricordate: e cioè il carattere della crisi. Mentre da un lato ha rappresentato indubbiamente un apogeo nella storia del teatro, dall'altro e per le stesse ragioni il Novecento è stato anche un'epoca che ha messo in crisi profondamente il teatro, di più, che ha reso possibile pensare la crisi del teatro. Infatti, nel cercare di restituire a questo mezzo espressivo-comunicativo, ormai a rischio di obsolescenza, un senso, un valore, una necessità, i protagonisti della scena novecentesca (e, oggi, quelli postnovecenteschi) hanno tutti imboccato, sia pure in modi differenti e con diversa radicalità...
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