Alcune linee attraversano e collegano fra di loro i saggi che qui si presentano, consentendo di leggere il disegno complessivo a cui rispondono, quello cioè di esplorare non solo le nuove configurazioni che affiorano dopo che il digitale ha “esploso” – o imploso – modi, mezzi e oggetti (se vogliamo attenerci alle categorie classiche della drammaturgia), ma anche di saggiare, a fronte di questo compito, la tenuta complessiva degli apparati metodologici che il fine-millennio ci ha consegnato. In questa prospettiva i punti di osservazione più idonei si attestano nelle zone di “confine”, per cogliervi i processi di slittamento, la dissoluzione progressiva delle frontiere, lo scambio sempre più frequente fra le marche che segnalano la diversità dei territori, invalidandone ogni proprietà identitaria. Abitarne le linee infatti significa il più delle volte denunciarne la virtualità, privarsi delle funzioni distintive e oppositive che ci consegnano. Azioni in loop, percorsi di smarrimento, tempi reiterati, immagini aptiche sono segni sintomatici di un'assenza, di una sensibilità dei diversi enunciati a configurarsi in modalità nelle quali né si dà ai casi tutela narrativa, né il mandato narrativo è affidato alla composizione dei casi. È l'altro lato del mondo digitale, che invece sembrerebbe destinato a resuscitare i fasti della narrazione classica moltiplicandone i ribaltamenti e accreditandola con l'iperrealismo degli effetti speciali e con l'ipertrofia dei processi di pre e postproduzione; piuttosto che per proliferazione delle vertigini metatestuali, i passages qui esplorati, ospitano il pensiero del mutamento per la perdita di corpo e luogo che esibiscono, per l'esperienza del vuoto che manifestano.